mercoledì 8 gennaio 2020

Come sopravvivere al ventennio senza scatenare una guerra mondiale


Gli ultimi vent’anni sono stati quelli della famiglia, del fallimento della mia vita lavorativa, delle soddisfazioni sportive, degli incidenti, dei lutti, dei miei cani, dei viaggi che non avevo ancora fatto, del mio premio letterario del mio libro ,delle moto, degli articoli sul giornale, di un assessorato durato cinque ore, dell’orto, del come sono invecchiato e di quello che mi aspetto, delle letture che mi hanno salvato e di quelle che mi hanno portato alla dannazione. Su tutto, c’è stata una lunghissima colonna sonora, frutto di quello che ero stato prima della fine del millennio. 

1 -     Blackwater – Rain tree crow
2)      Emma Bovary – Patty Pravo
3)      Euro child – Massive Attack
4)      E’ stato molto bello – Battiato
5)      New town – Vic Chesnutt
6)      Feel like makin love – D’Angelo
7)      Thinking about you – Frank Ocean
8)      Ciao amore – Dalida
9)      Carpet crawlers – Genesis
10)   I’m the highway – Audioslave
11)   Falling at your feet – Daniel Lanois
12)   Racing like a pro – The National
13)   My moon my man – Feist
14)   I want you so hard – Eagles of death metal
15)   Mixed bizness – Beck
16)   Venus – Almamegretta
17)   Visions – Stevie Wonder
18)   Gentle spirit – Jonathan Wilson
19)   Believing makes it easy – Shearwater
20)   Chapter 24 – Pink Floyd
21)   Hit the city – Mark Lanegan
22)   Career of evil – Blue Oyster Cult
23)   Computer love – Kraftwerk
24)   The ballad of Lucy Jordan – Marianne Faithfull
25)   Il sogno di Maria – Fabrizio De Andrè
26)   Love will tear us apart – Joy Division
27)   Take a giant step – Taj Mahal
28)   Flutter girl – Chris Cornell
29)   Concerning the ufo… - Sufjan Steven
30)   Talk is cheap – Chet Faker
31)   I don’t feel it anymore – William Fitzsimmons
32)   Colours – Amos Lee
33)   Happiness – Elliott Smith
34)   The time is now – Moloko
35)   Behind – Lacquer
36)   Miracle – Temper trap
37)   Trouble – Ray La Montagne
38)   Miss miss - Benjamin Biolay
39)   I heard – Young fathers
40)   Jubilee street- Nick Cave
Il 2020 invece, sarà prevalentemente dedicato a De Andrè.

mercoledì 4 dicembre 2019

L'intenzione


La prima volta che uscii di casa con l’intenzione di correre, fu terribile. Non avevo cognizione di cosa volesse dire e pensavo che, mettere un piede davanti all’altro più velocemente possibile, sarebbe stata la cosa più giusta da fare. Avevo finito gli orali degli esami di stato il giorno prima. L’idea di fare dell’attività sportiva quasi a voler sudare per “spurgare” le tossine degli ultimi mesi, faceva passare in secondo piano il fatto che potesse essere un’esperienza traumatica per un ragazzetto come me il quale aveva passato gli ultimi due anni a fumare le Camel o le Gauloises rigorosamente senza filtro. Qui non si trattava di fare i soliti giretti del campo di basket per riscaldarsi prima di affrontare la partita di pallavolo. Dovevo percorrere un tratto, da un punto all’altro, all’aperto, di mattina, con o senza colazione nello stomaco, totalmente privo di allenamento. Mi misi d’accordo con la cugina di un mio amico aquilano, in vacanza durante quel periodo a Ortona perché sapevo che era una brava sciatrice e sicuramente aveva un briciolo di attitudine allo sport. In realtà aveva delle belle tette e la mia intenzione era quella di vedergliele ballare mentre correvano lungo la discesa di via Marina. Era il 2 luglio 1986, ci incontrammo davanti la chiesa di San Rocco. Senza indugio, iniziammo la nostra corsa a ritmo sostenuto affiancati. La fortuna volle che la giovincella indossasse una maglietta cortissima la quale custodiva a malapena delle vistose poppe che le stavano alte e dritte come fossero scolpite. Facevo finta di guardare avanti ma, ogni volta che mi giravo per parlarle, notavo quelle protuberanze che ballavano al ritmo del suo passo. Distratto da cotanto spettacolo, non miresi conto che, dopo qualche centinaio di metri, il mio respiro era divenuto affannoso in modo eccessivo. Ostentavo una freschezza che in realtà non avevo per nulla, pur di rimanere al suo fianco per guardarle le tette. Lei non sembrava affaticata, avrei dovuto sospettarlo, dato che praticava sport regolarmente. Non feci alcuna opposizione al fatto che, una volta arrivati sulla piazza del faro, ci dirigessimo lungo il marciapiede esterno del molo nord che a quel tempo era accessibile. Se, fino a quel momento, la discesa aveva facilitato la mia corsa da principiante, una volta in pianura, dovetti fare appello a tutto il mio arrapamento, per continuare. Lei aveva addirittura aumentato il ritmo. Non le stavo più a fianco ma dovevo continuare. Ansimavo come una vecchia locomotiva ma la ragazza si allontanava sempre di più. Dovevo aggrapparmi a qualcosa. Lungo il muro di protezione del molo erano incastonate delle targhe in marmo che segnavano i decametri.  Ecco, mi attaccai lì. Il faro, mi sembrava lontanissimo così come la ragazza. Dovevo farcela. Dopo pochi ma interminabili minuti arrivai al termine del molo, proprio sotto la torretta bianconera. Sembravo un vecchio asmatico in un fienile. Mi buttai per terra, tentando di scovare tra le nuvole, un segno divino che decretasse l’indulgenza plenaria per l’impresa che avevo compiuto. Accadde di meglio: la ragazza, accorsa per saggiare le mie condizioni,  si avvicinò  nel luogo dove ero steso, facendo ombra sul mio viso con il suo corpo. Da quella posizione, non c’era più nessuna maglietta che impedisse alla mia visuale di ammirare le sue incredibili poppe.

domenica 1 dicembre 2019

La via




Il primo ricordo che ho di via Cervana risale all’estate del 1973.
A quei tempi abitavo a Milano e l’unica possibilità che avevo di passare le vacanze al mare, era quella di stare, per qualche tempo, dai miei nonni paterni, i quali avevano deciso, dopo un discreto girovagare, a causa del lavoro di nonno Camillo, di vivere il tempo della pensione proprio ad Ortona. La nostra famiglia non aveva alcun legame con questa cittadina. A lungo, il cognome Di Renzo, è rimasto l’unico nell’elenco telefonico. Tuttavia, per me che respiravo tutto l’anno, lo smog della Milano industriale, Ortona rappresentava una grande possibilità di scoprire il mare. Tutti i parenti si innamorarono della cittadina: i genitori di mia madre, aquilani puri, le sorelle, i cugini e  gli affini. A quei tempi Ortona godeva di una costa incontaminata, dove tantissimi turisti, specialmente quelli tedeschi, amavano frequentare camping, alberghi, affollando spiagge e calette, dal Lido Riccio fino a San Vito. L’acqua era cristallina e appariva normale, per me, che si potesse vedere il fondo con estrema facilità.
Prima di avventurarmi per il fondali bassi e sabbiosi del Lido Saraceni, era necessario rinnovare l’attrezzatura “subacquea” acquistando una maschera economica da Leo Basti, Farinelli o Primavera Sport. Prima che mi trasferissi definitivamente, ero affidato alle cure dei miei nonni e delle mie zie le quali, data la mia costituzione gracile e apparentemente malaticcia, avevano ritenuto che fosse meglio, per me, andare al mare evitando di utilizzare, per quanto possibile, il torpedone blu della premiata ditta Napoleone, il quale faceva la spola tra il Lido e la città alta. Forse ho passato molte mattinate seguendo quel percorso con i sandali ai miei piedi mentre vedevo l’autobus carico di bagnanti comodamente seduti ma una la ricordo bene e potrebbe far testo per tutte: non è il ricordo di un evento particolare ma è la memoria di una sensazione, di un tempo particolare, di visioni che non torneranno più: essere bambini apparentemente spensierati agli inizi degli anni settanta. Così, quella stradina ancora sterrata che partiva dalla radice di via Marina e che finiva, alla seconda curva di via Marina, proprio sopra la fonte delle fate e scendeva fino alla piazza del porto. Scendevo con mia zia Rosaria verso le sette e trenta. Le officine e i fondaci a sinistra erano già all’opera, meccanici riparavano pesanti motori di pescherecci e reti da pesca uscivano dai grossi portoni fino a stendersi lungo la strada. Nell’osteria di Ciacciantonio, il rude gestore era intento a preparare colazioni e a dispensare cordiali ai pescatori più gagliardi. Era un vociare “silenzioso” di parole in dialetto che a me allora parevano incomprensibili ma che avrebbero cullato il mio crescere ed invecchiare in questa città. Prima di affrontare il lungo rettilineo, sul marciapiede ombreggiato dai pini allora giovani e bassi, vecchi pescatori, i cui volti rugosi erano illuminati dalla luce del sole nascente, rammendavano con gesti sicuri le reti da pesca, seduti su cassette di legno. Mi appariva tutto così bello nella sua semplicità, come se quello fosse il preludio alle ore spensierate che avrei vissuto sulla spiaggia, solo dopo aver percorso quella strada che allora per me sembrava lunga e interminabile: via Cervana.


sabato 6 settembre 2014

Diary of a madman



E’ dal 1990. Non so come sia accaduto. Ho una vecchia agenda di una compagnia assicurativa, una di quelle che ti regalano sotto Natale. Ho sempre avuto la mania delle agende, nelle quali scrivere appuntamenti, cose da ricordare, numeri di telefono, quasi volessi creare una vita ricca di avvenimenti, molto di più di quelli che ho effettivamente. Ultimamente vado in giro con un Moleskine, un’agenda Mondadori ed un’agenda di rappresentanze. Porto questi tre tomi insieme ad una versione in inglese di “Gente di Dublino” di Joyce, scovata dentro gli scaffali di una libreria ortonese per soli quattro euro.
L’agenda del 1990 è diversa: nelle sue pagine ho annotato tutti gli acquisti discografici che ho effettuato dalla fine del 1989, all’altro ieri. E’ un’agenda che è cresciuta pian piano, senza particolari ansie, compilata dopo le mie puntate nei negozi di mezz’Italia, da Roma a Bologna. Ventiquattro anni di scelte, ricerche, sorprese e delusioni. In questo diario, ogni tanto, ho provato a fare classifiche annuali di ciò che avevo acquistato ed ascoltato.
Spesso, scorrendo le prime pagine, mi rendo conto di quanti dischi ancora oggi mi sono rimasti nel cuore e di quanto sono durato l’arco di una stagione. La musica ha condizionato tantissimo la mia vita e molto spesso risulta essere un limite per la fruibilità, da parte mia, di alcuni luoghi.
Non sopporto le palestre perché odio le radio commerciali e la loro musica, detesto la voce gracchiante di Ramazzotti negli altoparlanti dei parcheggi Iper, odio gli uffici dove, di prima mattina, la Pausini infesta i locali con la sua lamentosa nenia. Il mio diario rispecchia totalmente quella che è la mia idea di musica, i momenti della mia vita nei quali ho prediletto determinati generi, i momenti nei quali ho acquistato pochi cd. Sono arrivato addirittura a creare diagrammi, per esaminare, come sia cambiata la propensione all’acquisto di lp o cd, con il passare degli anni. Altro elemento interessante è quello della scoperta di alcuni artisti “classici” lasciati da parte, solo per negligenza o pigrizia e rivalutati in “tarda età”. A differenza di molti miei coetanei, non mi sono mai aggrappato alle nostalgie, rifuggendo le nuove proposte. Ho sempre avuto la convinzione che la musica rock avesse un forte potere rigenerante, una sorta di araba fenice, la quale riprendesse forza dalle sue ceneri. Così, ultimamente, seguo tanti bloggers, i quali mi danno continuamente delle dritte sulle nuove uscite. Io ascolto sempre con la mente aperta e l’anima predisposto, non ho preclusioni, sono convinto che i ragazzi abbiano tanto da dire, musicalmente parlando. Quello che mi rammarica è il non aver tenuto il diario della mia vita, avrebbe potuto essere un’esperienza molto interessante. Mi accontento, per il momento di questa agenda piena di titoli. Chissà che non sia questa a rappresentare veramente quello che sono.Ci sono ancora tante pagine vuote.

mercoledì 14 agosto 2013

Chiara Jerì



Ci ho messo tempo, lo ammetto.
Ho approfittato della lunga preparazione per una gara di triathlon, caricando i brani sull’Ipod ed ascoltandoli nelle tante ore passate sulla bici. Dovevo farmi un’idea che non fosse superficiale, perché la musica ed i musicisti di queste canzoni, non sono superficiali. Poi ho pensato al mare che si vede da Livorno. Un mare diverso dall’Adriatico ed ho provato a capire come avessero fatto queste due sponde ad unirsi. Spero di aver trovato un filo comune a queste storie e di essere entrato nell’essenza di queste note, anche perché, di questi tempi, mi è difficile ascoltare musica che non abbia dentro di sé, la rabbia che non riesco ad esprimere nei confronti di tutto ciò che è esterno a me. Mi è altrettanto difficile separare questa musica dall’immagine di quello che è stato il rapporto con il compositore della maggiore parte di questi brani, rapporto che ho lasciato andare, per mia manifesta negligenza, complice un periodo di estrema superficialità. Ormai, a cose fatte, rimane la musica. 

Cambiare i luoghi della propria vita, cambiare amori ed amicizie, lasciarsi andare nella nebbia di quello che sarà, con tanto dolore ma senza rimpianti, perché i rimpianti fanno schifo, si attaccano come le zecche. Tutto questo ha sostenuto l’emergenza della ragione di questi brani. Dall’altra parte c’è una persona sensibile, con i nervi appuntiti come una matita, pronti a cogliere qualsiasi sbalzo di umore, qualsiasi cambiamento dello sguardo. Così, la sua voce non può mentire, lo senti dal tremolio delle pause, dalla voglia di piangere tenuta a stento. Raramente qualcuno ha potuto essere così partecipe di un testo, di una melodia; senti che qualcosa potrebbe spezzarsi da un momento all’altro, come se una cantante potesse fermarsi all’improvviso e registrare questa sua esitazione nei solchi di un disco. Questo a Chiara, potremmo perdonarlo, perché a volte la sua voce, ti prende alla gola, ti chiede di tenderle la mano, per tirarla fuori da quel baratro, dal quale ella tenta di uscire. C’è Genova nella mente, quelle strade arancioni di polvere, vicino al porto, dove si ammucchiano colori, volti ed odori. 
Ma c’è anche il taglio dei tramonti sul tirreno, con quegli occhi rivolti sempre agli orizzonti lontani, dove partire, significa uscire nel mare aperto, verso le terre lontane, nelle quali ognuno ha almeno desiderato scappare, per una volta. Saranno diversi gli amori sul Tirreno? E gli abbandoni? Anni fa volli fare un vicino dall’Adriatico alla costa laziale. Lo feci per il solo obiettivo di levarmi le scarpe e bagnare i piedi in un mare differente. Quella giornata significò molto per me e per quelli che erano con me. E’ vero, succedono cose straordinarie dall’altra parte del mare. 


Grazie Chiara.


Chiara Jerì - Mobile identità
Chiara Jerì e Andrea Barsali - Mezzanota

venerdì 25 gennaio 2013

I migliori chitarristi ortonesi



Di solito non parlo degli altri chitarristi. Il chitarrista non è un individuo appartenente alla categoria delle "brave persone". Non completamente, almeno. Tutti non chitarristi, sappiamo fin dal primo giorno in cui prendiamo la chitarra in mano, che la nostra vita di axeman sarà speciale, diversa dalle altre. Le nostre certezze possono essere riassunte in vari punti fissi, come assiomi già dimostrati o dogmi non disgregabili da dubbi od incertezze.  Parlerò in prima persona e sono sicuro che molti chitarristi capiranno cosa intendo. Punto primo: sono il miglior chitarrista che ci sia in circolazione. Non importa quello che fanno gli altri, anche se sono più veloci di Malmsteen, più funambolici di Vai, più geniali di Zappa, più tecnologici di Bill Frisell, perchè io ho qualcosa di speciale anche se adesso non ho tempo di esprimere le mie potenzialità. Punto secondo: parlo bene degli altri chitarristi per cortesia ma, quando mi chiedono un parere, passo lentamente dall'elogio alla stroncatura tramite la tecnica dell'insinuazione-dubbio. Punto terzo: se vedo un chitarrista fare un assolo da manuale, sono capace di negare anche l'evidenza. Punto quarto: la chitarra che ho e l'attrezzatura che ho sono il top, anche se il mio suono è simile a quello di una canna spaccata. Ultimo punto: anche se suoniamo insieme in un apparente contesto musicalmente democratico, primo o poi alzo il volume del mio ampli e ti sotterro. Detto questo, i chitarristi non potranno mai essere amici tra loro a meno che uno dei due non decida di cambiare strumento. Così per stilare la classifica di quelli che reputo essere i migliori chitarristi oggi in circolazione ad Ortona, devo effettuare un'operazione molto semplice: escludere totalmente che io sia un chitarrista. Potrebbe anche essere plausibile, dato che la mia chitarra ha iniziato, negli ultimi anni e specialmente negli ultimi mesi, a prendere sempre più polvere sopra al treppiedi.
Prima di iniziare vorrei specificare che per me un chitarrista è bravo quando può avere una delle seguenti qualità oppure le stesse qualità combinate in varie maniere: tecnica, suono, idee, sensibilità, adattabilità, cultura dello strumento, cultura musicale trasportata in musica, creatività, presenza scenica.
Inizierei da quelli più “anziani” in attività’. Tre sono per me i senatori della chitarra ortonese: Sergio Civitarese, Walter Saba e Sauro Grumelli. Del primo posso solo menzionare l’enorme conoscenza del repertorio rock. Con Sergio si può suonare tutto dal 1980 in giù. Una cultura enciclopedica, una sicurezza per gli altri musicisti. Questo è un chitarrista che ti para il culo in ogni occasione. Walter Saba è il chitarrista dell’imprevedibile: dotato di gusto raffinato nei solo melodici e capace di affrontare brani senza conoscerli. Walter è il chitarrista delle jam. Puoi accennare un motivo improvvisato e Walter ti segue, solo guardando il cambiamento delle espressioni sul tuo viso. Instancabile guitar barman. Sauro è un Neil Young dal suono secco definito a tratti nervoso, dall’accordo calibrato e cristallino. Sauro è il chitarrista – impressionista.
Arriviamo velocemente al quartetto dei master: Cesare Paolini, Francesco Olivieri , Augusto Miccoli e Nico Marino. Cesare è rock italiano, per eccellenza. Potrebbe essere un Dodi Battaglia, un Poggipollini ,un Solieri, ma è un accademico della chitarra acustica con grande conoscenza dei brani. A tratti imprevedibile, riesce sempre a darti l’accordo migliore nelle trasposizioni. Francesco Olivieri è la chitarra moderna per eccellenza. Grande esecutore di Satriani, Vai e Van Halen, ha una collezione incredibile di chitarre che riesce scambiare con altri maniaci a gran velocità. Grandi capacità didattiche lo rendono perfetto per l’insegnamento ai ragazzi. I suoi alunni raggiungono ottimi risultati in poco tempo. Non ama i vecchi chitarristi e la chitarra suonata con le dita. Augusto Miccoli è il chitarrista completo. Riesce a passare dall’heavy metal alla musica napoletana, al jazz, cambiando strumento, suono e tecniche in poco tempo. Per Nico Marino il discorso potrebbe essere simile a quello di Augusto anche se Nico predilige molto la personalizzazione di brani conosciuti, utilizzando strumenti acustici o classici. Ottimo gusto nei solo.
Arriviamo agli junior: Alberto Soraci, Leonardo Antonelli, Lorenzo Di Deo e Angelo Di Nunzio.
Alberto è il talento per eccellenza. Polistrumentista, arrangiatore. Sta scoprendo le delizie del lap steel. Uscito come Leonardo e Lorenzo, dalla scuola di Francesco Olivieri, ha completato il repertorio chitarristico grazie ad altri modelli di riferimento, tra questi Knopfler o Landreth. Stesso discorso per Leonardo Antonelli, con l’aggiunta di una maggiore cattiveria e velocità in alcuno solo. Per Lorenzo vale il discorso dei primi due anche se il ragazzo sta scoprendo una dimensione più intimista della chitarra. Questo è un aspetto che lo rende molto simile a me, per certi versi. Angelo ha il dono di essere rigoroso nel cercare le sonorità adatte al genere musicale che ama di più: il rock anni '60/70. E' un chitarrista essenziale , dotato di buon gusto. Oltre al rock ha un progetto parallelo nel quale esplica la sua fertilissima vena reativa ed è conosciuto anche fuori Abruzzo. E' un piacere suonare con lui.
Ok spero di non aver fatto torto a nessuno, oppure no?

Come sopravvivere al ventennio senza scatenare una guerra mondiale

G li ultimi vent’anni sono stati quelli della famiglia, del fallimento della mia vita lavorativa, delle soddisfazioni sportive, degli in...