domenica 13 dicembre 2009

Gli artisti più sfigati della storia del rock


1 - Def Leppard
2 - Lynyrd Skynyrd
3 - Buddy Holly & Richie Valens
4 - Guido Toffoletti
5 - Allman Brothers
6 - Pete Best
7 - Southside Johnny
8 - Ted Hawkins
9 - Eddie Cochran & Gene Vincent
10 - John Campbell

sabato 7 novembre 2009

I gruppi inutili nella storia del rock



Forse le band la cui assenza, non avrebbe cambiato di un cm la storia del rock.
1 - Queen
2 -Extreme
3 -Slade
4 -Dream Theater
5 -Cult
6 - Mister Mister
7 - Tangerine dream
8 -Plastic Ono Band
9 -Killers
10 -Offspring

martedì 13 ottobre 2009

Le canzoni che non posso più ascoltare ( Parte prima


Ci sono delle canzoni che non riesco più ad ascoltare. Si stringe un nodo nella gola, devo staccare lo stereo. Non ce la faccio. Alcune non sono dei capolavori, ma ognuno, penso, abbia una lista personale di brani che lo legano a determinate situazioni.

1 - Over and over again - Neil Young
2 - My sweet lord - George Harrison
3 - Prove it all night - Bruce Springsteen
4 - Into the mystic - Van Morrison
5 - Green-eyed girl - Ted Hawkins
6 - Sinner and their repentances - Bob Mould
7 - Qualsiasi cosa scritta da Gene Clark
8 - Visions - Stevie Wonder
9 - Stood up - John Hiatt
10 - River of tears - Mink De Ville
11 - Jealous Guy - John Lennon
12 - Series of dreams - Bob Dylan
13 - Here comes my girl - Tom Petty
14 - Take my hand - Los Lobos
15 - The rain song - Led Zeppelin
16 - Cometa Rossa - Area
17 - Indoor fireworks - Elvis Costello
18 - Goin'mobile - The Who
19 - Jesus he knows me - Phil Collins
20 - Wined & dined - Syd Barrett
21 - Run to me - Bee Gees
22 - Telegraph Road - Dire Straits
23 - The Lee shore - Crosby, Stills, Nash & Young
24 - In un palazzo di giustizia - Piero Ciampi
25 - You can't always get what you want - Rolling Stones
26 - Sweet Marie -Hothouse flowers
27 - The whole point of no return - Style Council
28 - Hallowed be thy name - Iron Maiden
29 - Jigsaw - Marillion
30 - Love will tear us apart - Joy Division



Siena Palio 2001
foto Gianluca Di Renzo

giovedì 17 settembre 2009

Sogni asciutti


Seduto sulla vecchia panchina scrostata di verde, lungo l'affaccio ad oriente, sul mare, nella mia città, un ragazzo sogna altri mondi, altre città. Sogni di adolescente. Un modo per aggrapparsi, ad altri mari, altre terre altri suoni. Questo ragazzo sfoglia un giornale, uno di quelli che era raro trovare nelle edicole di provincia negli anni '80. Il giornale ha il nome di un noto film western di Peckinpah, ma al ragazzo questo non importare più di tanto. Tra le pagine opache del giornale, spunta la figura di un ragazzo allampanato, una specie di Bowie in astinenza: Jim Carroll. Non desta particolare attenzione, il ragazzo, alle parole dell'articolo, ma qualcosa rimane, quel giorno. Forse l'aria di primavera mista all'adolescenza, forse il ricordo di un periodo in cui tutta la musica era una nuova scoperta, ogni giorno. Rimane nella mente il volto di Jim. Anni dopo, nella bagarre di un negozio di dischi in dismissione, il ragazzo, ormai uomo, trova alcuni vinili. Tre dischi di Jim Carroll. Avanzi di uno scaffale nel quale il venditore aveva avuto la pretesa di capire il rock. Il ragazzo uomo porta i dischi a casa. I dischi rivelano quello che, anni prima, il giornale non avrebbe potuto spiegare. Manca qualcosa, però. Allora il ragazzo uomo tenta di conoscere Jim. Ma Jim è lontano. Passano altri anni. L'uomo non più ragazzo, primi peli bianchi sulla barba. Riesce a trovare un paio di libri di Jim: sono alcuni diari ed un libro di poesie. Il cerchio si chiude. L'uomo si siede sulla stessa panchina di venticinque anni prima, davanti allo stesso mare, sull'affaccio ad oriente, sognando ancora altre terre ed altri suoni.

mercoledì 19 agosto 2009

Willy


Quando gli ultimi frammenti di giovinezza, saranno spenti, coperti dai peli di una barba sempre più bianca, i ricordi verranno arrotondati come l'acqua fa con i ciottoli del fiume. Allora nella nebbia, riuscirò a spillare gli attimi delle canzoni sulla mia pelle tirata e fresca, sui miei muscoli turgidi, sulle notti a cantare in cima di porto, sulle corse veloci e sugli amplificatori che fanno rumore di massa. Avrò in mente un tipo allampanato, vestito come una di quelle madonne nelle teche di vetro, di quelle che mia nonna teneva sul settimino, tra l'odore della naftalina e delle vetuste ciprie, un soggetto poco raccomandabile, se incontrato nei bar di New Orleans, ai bordi di un biliardo, pronto a scroccare le cicche dei giocatori, una spia, uno che fa le soffiate. Questo tizio ha i segreti nascosti nel suo cuore. Ama la donna che si affaccia al balcone di fronte la sua finestra ed ogni sera, le scrive una canzone, che lei ascolta attraverso le persiane , mentre accoglie i clienti sul suo letto. Il tizio spera e si strugge, tanto che si consuma d'amore come un fiammifero al vento. Oppure lo vedo ubriaco, ebbro, mentre balla solo nella piazza del paese, alla festa del santo. Lo troveranno, la mattina dopo, accoltellato a morte per aver rotto le scatole alla donna del boss. Questo è il mio ricordo, ma non è e non sarà la verità. Sarà quello che i miei pensieri avranno voluto creare in questi anni per Willy De Ville. Addio, Chico.

giovedì 16 luglio 2009

Andai 1993


Ero preparato, perché l’età lo imponeva. I miei compagni erano tutti più anziani. Avevano sudato tutto l’inverno per avere una forma fisica soddisfacente. Io no, ero nucleare. Studiai lo zaino con attenzione. I grammi, il necessario per la sopravvivenza, per la sussistenza, per la mia esistenza. Passai la notte a scoreggiare nel furgone, tendendo agguati ai miei compagni addormentati. Solo un imbuto. Il traforo del Monte Bianco infinito, con il rumore del motore a rimbombare sulle pareti curve. Salimmo carichi, dopo un pessimo caffè francese. Nei riflessi opachi della roccia rossastra, i suoni dei nostri moschettoni, il fruscio degli abiti, il frantumare degli scarponi sulle pietre. Un rifugio. Dormii tra le voci straniere di cento alpinisti del mondo. Sotto un vento sferzante, cadevano dal colatoio gli enormi massi a minacciare gli alpinisti. La tempesta si avvicinava. Ci chiudemmo nel bungalow d’alta quota, sull’ultimo lembo di roccia. Alle spalle, la lingua di ghiaccio incombeva. Di notte un fulmine colpii il tetto, piegando l’antenna. Nella sosta forzata, si udii il rantolo di sventurati alpinisti in preda all’edema. Il giorno di attesa tra i mugugni dei compagni.Poi un tramonto lungo sulla Francia. Le nuvole come lenzuola, strofinavano i fianchi delle montagne. Rumori, suoni, voci, sibili. Fu a mattina che salii sulla vedetta di ghiaccio, nel vento teso che trasformava il respiro in brina. Nel bianco assoluto della distesa, le montagne riempivano gli occhi. Un deserto candido con le macchie rossastre dei picchi e delle vette. Fu allora che estrassi il pacchetto che avevo celato gelosamente alle intemperie. Dentro c’era un walkman. Misi la cuffia nel bagliore accecante dei riflessi. Lì, basito dall’ambiente, partirono le note dell’unica canzone presente sul nastro: “Sugar mama” di John Lee Hooker. L’indomani sarei salito sulla vetta del Monte Bianco. Dopo aver ascoltato quella canzone in quel posto, avrei potuto benissimo accontentarmi

domenica 21 giugno 2009

Estate per sempre


Mi tolgo la vita sulle note di Bob Seger. Non mi è rimasto molto della musica. Tento di raschiare fondi di barili, avanzi di magazzino, resti della festa. Sono qui seduto al computer, con le palle sudaticce, a cercare nella rete un nuovo idolo per la mia età non più giovane. Trovo, invece, vecchi rocker, antiche mummie, croste di padre Pio, cadaveri di cantanti, corse contromano di chitarristi alcolisti, vergognose baldracche, con le vasche piene di pessimo whisky. Quanto tempo è passato, quanto nastro magnetico, sbattuto da una macchina in corsa, a svolgersi sulla strada verso il mare. Sulla spalla porto una radio mono, contro l’orecchio l’altoparlante con i Pink a palla, due sandali pieni di sabbia, ed un sole oltre la collina di tufo. Correvo, tra gli scaffali, di discount estivi, dove si ammucchiavano dischi di Villa e dei Doors a “Prezzo Gentile”. Non rimane nulla, quando Bob Seger sembrava un cafone con un taglio di capelli del kazzo e una diet Coke nella mano destra. Passano oggi le nuvole, tra le sputazze di pioggia a chiamare i morti nel Nirvana dei chitarristi sui poster della mia vecchia camera. Bon Scott mi guardava senza intuire della sua morte ed io lo salutavo come si onora un nuovo culto. Piove ancora sugli Style Council, sul vecchio bootleg di Springsteen, sulla figa di Wendy O’Williams, sulla punta della lingua di Lemmy, sul culo di Lita Ford. Regali se ne facevano, oh si! C’era, sotto l’ascella, un Quadrophenia, avvolto ancora nella plastica, aspettando che il negozio di elettronica aprisse, dopo le vacanze estive, per comprare una nuova puntina per il giradischi. Dal campo vicino al luogo dove lavoro, una mietitrebbia mi butta l’odore del grano appena tagliato misto allo stallatico: è l’odore degli Y&T dopo la seconda Liceo, quando l’estate era tutto e potevi sperare nell’amore di una ragazza qualsiasi. Prove it all night! Prove it all night! Si fermano le gocce…Catch the Rainbow! Non è tempo per le stesse cose, è tempo per raccontare ad un altro, l’odore della musica, la grande voglia di figa in quattro quarti, le cassette per acchiappare, i dischi da consumare, quelli brutti da gettare contro la parete del vicino antipatico, le copie del Mucchio lette e rilette . Ancora estate. Evviva Santana!


mercoledì 10 giugno 2009

Gli Who ed il fustino del Dash


Il ricordo degli Who è associato all’odore del Dash.
Ho quattordici anni e siamo immersi tutti negli anni ‘80 fino al collo. Il mondo, la mia città, mi appaiono più grandi, più vaste, inesplorate. Sono un ragazzo al primo amore con la musica rock. Ci sono dei pomeriggi nei quali, giro nei negozi di dischi alla ricerca di…qualsiasi cosa abbia attinenza con il mondo che ho appena conosciuto. Arriva il solito cugino dell’amico di ascolti. Quei cugini che abitano a Roma e che girano per i negozi “importanti”. Mi regala una cassetta Sony Hf-Es da 90 minuti. Sul nastro la registrazione del disco degli Who: “Tommy”. Nei minuti che avanzano, qualche brano dei Talking Heads e “Rosalita…” di Springsteen. Al momento non dispongo di tanti vinili e cassette ed ogni cosa che riesco ad avere, la studio con attenzione. Ma quel disco no. Quel disco mi ipnotizza. Riesco ad ascoltarlo per intero, anche tre volte al giorno, come una medicina necessaria. Non posso ascoltare solo qualche brano, sarebbe inconcepibile, per me le due side della cassetta sono una cosa indissolubile ed unica. Ho appena finito la scuola ed ho il tempo che mi serve. Nel mio appartamento c’è un ripostiglio di un metro per un metro, dove ci vanno a malapena le scope ed una scarpiere. Mamma lo usa anche per me i prodotti per la pulizia della casa. Ci sono dei fustini di detersivo per lavatrice. Sono ossessionato da Tommy. Prendo le casse dello stesso, allungo i fili e ficco le casse nel ripostiglio. Quindi, mi chiudo in quel buco e mi siedo sul fustino del Dash. Riesco a stare novanta minuti ad ascoltare quella musica ( C’ho il mangia cassette con l’auto -reverse). Nella ristrettezza del locale, l’aria inizia a scarseggiare e rimane solo il profumo del detersivo . Sono in uno stato che rasenta l’asfissia, trasformandosi in una specie di trance sciamanica. Sono pochi i dischi che riesco a concepire come ho fatto per “Tommy”. Potrei citare “Hooker’n’heat”, “The wall”, lo stesso “Quadrophenia”, ma L’opera degli Who con il mago del flipper rimane la musica del Dash. C’è una nota stonata a questa storia. Nella mia versione in cd, acquistata qualche anno fa, ho notato delle variazioni sul remastering: su “Eyesight to the blind”, l’attacco di Daltrey viene fatto un’ottava sopra rispetto all’attacco sul vinile. Particolari irrilevanti o differenze traumatiche, per uno che si era chiuso in un ripostiglio?

giovedì 28 maggio 2009

Cadere da una palma


Ho visto Keith, con la camicia a fiori e le ciabatte. Si accompagnava con nipoti o figli, non ricordo. Un impiegato di un ufficio di provincia con le sue ferie d'agosto. Poi ho visto Keith addormentarsi mentre lo intervistavano, come una manovale al bar dopo una dura giornata di lavoro. Keith è un operaio, un uomo che ti apre la porta in canottiera, uno che porta a spasso il cane la sera. Keith siamo noi. Tutto quello che noi speravamo per il rock, rimane nelle mani di Keith. In questi anni-secoli di musica, indenne e corazzato contro ogni tipo di esperienza, Keith ha sorvolato le morti dei suoi amici come una cornacchia malnutrita, guardando la strage sotto di lui, senza che la storia lo toccasse minimamente. Ha sopportato l'assenza di Brian, ha regolato le volate di Mick. C'è una sola differenza : se levate Mick a Keith, Keith fa ottimi dischi, se fate il contrario, Mick è un uomo perduto, tanto che il diavolo è tentato di restituirgli l'anima. Il più grande motore della leggenda che amiamo, si regge su due gambe secche e vagamente pelose. Dalla sua Tele a cinque corde ( il Mi cantino lo ha levato perchè - dice lui - ad un chitarrista ritmico non serve) si ergono le lezioni dei riff di granito. Quando forgiò "Start me up", fu capace di stare quasi due giorni su quel giro in studio di registrazione. Tira su quel braccio in levare, come la chitarra scottasse, la paletta ingiallita dalla sigaretta tra le corde, risata da finto coglione, manda avanti Jagger a prendersi la sua inutile gloria ( avete capito che non amo jagger). Solo un altro individuo può tenere testa a Keith: Pete Townshend. Degli altri, poco ci frega.

lunedì 18 maggio 2009


Sotto la luna nuova ed un cattivo whisky, si leva lentamente il naso da pagliaccio. Lacrime sulla camicia bianca, gli scolano il trucco in rivoli nerastri. Ride ancora, quando il principino appare sullo schermo, le orecchie a sventola ed un vago rossore da porcaro dello Staffordshire. Sono giacche strette, scarpe di vernice, chitarre americane accordate all’uopo. Tuttavia, sullo scaffale ancora quei quarantacinque giri consumati, tra cicche e vecchi MM. “Declan” - lo chiama la mamma da basso - “Vatti a lavare è pronto in tavola!”. Nella grigia casa a schiera, dove muoiono le speranze dei padri siderurgici, l’allampanato ragazzino sta ancora lì a chiedersi la differenza tra i Kinks e gli Who e come abbia fatto la ragazza di Daltrey a lasciare il cantante per un ortonese dall’abbronzatura facile. “E’ sera, andiamo, le Attrazioni ci aspettano in sala prove. Non lì deluderei se fossi in te”. Lo accompagna una vocina stridula.: forse un Ringo Starr pupazzo sul comodino o lo gnomo di Keith Moon… Declan è uno che con gli orari non ci sta proprio, a forza di prendere a pugni orologi e di accendere fuochi d’artificio in casa , la mamma lo ha preso per pazzo. “Finirai nelle forze armate!” - gli urla la vecchia. Ma Declan non è uomo violento. Sì, una volta, ubriaco, si mise ad offendere negri, ma che volete farci è sempre il nostro piccolo angelo. Ora la luna si sposta filtrando dalle vetrate unte della sua stanza, dalle pareti piene di ritagli di Hank Williams. Non mi piacciono i long playing, “I can’t explain” quello che sento dentro, tutto è troppo lungo, ma un giorno anche una sola canzone non basterà più. “Mamma, esco adesso, sono bello come una rosa, ho spine da pungermi, mischierai il mio sangue con il cioccolato

giovedì 7 maggio 2009

Il Manuale di quello che è stato


Mi rinchiusi nella vecchia casa dei nonni, per una ventina di giorni, nell'estate del 1990. Un vecchio edificio in pietra della Majella, con una torre di vedetta che si affacciava sulla valle, verso il lago. In quel luogo, che era stato una vecchia osteria, respiravo ancora la storia della mia famiglia, sentendo sotto i miei piedi il monolite della stirpe e della inamovibilità delle cose. Volevo fare manutenzione, in una sorta di riconoscenza rispetto verso gli avi, che tanta fatica avevano fatto nel costruire quel caseggiato. Nella quiete del paese, interdetto al traffico veicolare e nel quale, il tempo era scandito dalla vecchia campane della chiesa, avevo un solo compagno: il registratore. Da Ortona mi ero portato due cassette: una era il disco di esordio come solista di Steve Wynn (Dream Syindicate) e l'altra era il disco solista di Bob Mould (Husker Du). Così mentre lavoravo a tinteggiature, pitturazioni, serrature, tubazioni, porte, finestre, cantine in disordine, quella era la mia colonna sonora. Non tardai molto ad esprimere la mia prefernza verso il disco di Mould. Capivo e le condizioni nelle quali era nato quel disco. lo scioglimento degli Husker Du, le incomprensioni con Hart, sempre più preso dall'eroina, il bisogno di stabilire dei silenzi, dopo l'uragano elettrico di uno dei due gruppi punk da me preferiti di sempre (l'altro erano gli X). "Workbook" era un disco acustico, vagamente crepuscolare, pieno della consapevolezza di una gioventù agli sgoccioli. Io avevo 22 anni e non riuscivo a comprendere completamente cosa volesse dire, diventare adulti. Questo disco mi aiutò molto, mi donò la capacità di vivere quel tempo, sapendo che sarebbe stato quello in quel momento e mai più. Grazie alla pratica "Zen" dei lavori di casa, riuscì a dare una dimensione alle ore, anche senza l'orologio. Il disco di Mould non era un vero capolavoro, intendiamoci. Sono pronto a scommettere però, che ognuno di voi conserva nella memoria, dischi imperfetti musicalmente, ma perfetti per determinate fasi della propria vita. Riesco a conservare il ricordo, dunque, il ricordo del periodo legato a quel disco.

mercoledì 29 aprile 2009

Un tipo da spiaggia


Sul boulevard, sfrecciano glutei di signorine con i pattini, mentre le alte palme, tagliate fino ai ciuffi, si piegano leggermente, alla leggera brezza dell'Oceano. Da lontano arriva l'odore dei wurstel sulla piastra di un furgoncino di hot dog. Tra il chiasso, i gelati, gente che corre, si sente il pizzicare ritmico di una chitarra acustica. Un vecchio, cappello di paglia, barba bianca, leggermente piegato sullo strumento intona la sua canzone. Ogni strofa viene descritta dalla sua testa che si alza, inclinandosi leggermente, lasciando scorgere gli occhi chiusi di un negro , dalle sopracciglia canute. Una unghia lunghissima, segna il ritmo sui bassi, mentre la voce gutturale, rauca, dolorante del vecchio riempie l'aria fino ad immobilizzare gli ascoltatori. Ci sono dei padri, che tengono i bambini davanti, come se quella musica fosse un taumaturgico elisir per qualche malattia infantile. La gente applaude. Il vecchio non vorrebbe tenere davanti ai suoi piedi quella cassetta, dove generosi gli spettatori gettano i loro dollari. Ma il vecchio deve mantenere la sua famiglia. Sa fare solo quello: suonare. Poco importa se a sera, con quei tramonti lunghi che non finiscono mai, quando la spiaggia si svuota, saluta il suo amico italiano, quello del camioncino degli hot dog, chiude la chitarra nella custodia e lento si avvia lontano dal mare, per tornare alla sua vecchia casa di legno con il giardino non curato. Arriveranno un giorno i soldi, forse ci vorranno anni e lui, aspetterà, per i "prossimi cento anni".

mercoledì 22 aprile 2009

La vera dinamite del Sig. Marrone


Continuo a parlare di amici. Quelli veri. Ne ho pochi in carne ed ossa e ne ho alcuni, selezionati, nella musica. Un uomo che ha cambiato il modo di vedere la musica. Il vero eroe, dal basso ventre in giù. Ma la vita non è facile. Non sempre hai le stesse vibrazioni. Una volta mi improvvisai Dj. Era il periodo in cui andavano i Litfiba, quelli di El Diablo. Tutti volevano ballare questa monotona canzone, ammaliati dalla ruffianeria di un Pelù, il quale seriamente stava accumulando soldi per la pensione. In questa mega palestra, dove giovani adolescenti dalle ascelle putride, si dimenavano, manco fossero alla sagra dei tarantolati, tentai la missione impossibile della mia vita: Misi un Cd di James Brown con la sua Sex Machine. Credevo ci sarebbe stato il delirio, non ripetevo possibile altro, non credevo realizzabile, quello che subito i miei occhi videro: tutti si fermarono, senza tentare minimamente di lasciarsi trasportare dalla "canzone funk definitva". Era una scena ridicola. Nell'immobilità totale della folla, un unico scemo, cretino, ad occhi chiusi, si stava dimenando come Lenny Kravitz probabilmente ha fatto dietro il sedere della Kidman: ero io. Decine di paia di occhi mi fissavano con commiserazione, tra un sempre più potente mormorio generale. Mi fermai, per sempre. Per me, la stagione delle feste era finita. Avevo capito che nulla era stato capito. Guardai la palestra di teste ondeggianti al ritmo di Shaggy prontamente messo nel lettore e capii che nulla sarebbe stato come prima. Ora, non chiedete a me, cosa può riservare la vita agli sfortunati i quali non riescono a sentire la musica, non mi interesso di loro. Ma se siete convinti che il Sig. Marrone sia uno dei grandi pilastri della negritudine musicale, voglio consigliarvi di studiare la sua prima vita, quella di un bluesman, come pochi sulla terra. E' un disco comprato per caso e, come molte cose per caso, è stato uno dei più incredibili regali mi sia potuto fare. Auguri.

domenica 19 aprile 2009

L'amico mio più caro


Non mi importa se ci siamo incontrati quando sei morto. Sulla bordo della fontana a capo Piazza, a L'Aquila, io ragazzetto, sfogliavo l'ultimo Buscadero, come la santa reliquia. Era una giornata di marzo del 1984 e non so come mi trovassi là, forse un sabato pomeriggio, a far visita ai nonni, arrivando da Ortona. Lessi questo articolo, con qualche commento della buonanima di Guido Toffoletti e subitò capii che c'era qualcosa di diverso dalle menate da Rockstar di un Eric Clapton, in procinto di cavalcare gli 80 ed i 90 con la giacca nuova di Armani sulle spalle e una mano sul culo della Del Santo. Alexis Korner è morto a Capodanno in un ospedale di Londra, aveva 55 anni. Come mai nessuno mi aveva avvertito della presenza di questo individuo? Iniziai una ricerca vinilica che portò soddisfazioni nulle alla mia discoteca. Intanto si ammucchiavano sullo scaffale di casa robe del tipo John Mayall, Whitesnake, Rolling Stones, Led Zeppelin, Free, Small Faces. Non comprendevo: perchè non riuscivo a trovare niente di Korner? Lo dimenticai, citandolo solo in qualche discussione tra bluesofili, ma in realtà, nessuno di noi, sapeva un accidente di lui. Passarono gli anni e terminarono i tempi d'oro del collezionismo. Nel 1994, perso nelle enormità di un centro commerciale qualsiasi del pescarese, mi ritrovai a rovistare in quegli enormi cestoni dove vengono ammassati centinaia di cd in offerta in una sorta di babele dei generi, che farebbe rabbrividire uno Scaruffi. Tra un vecchietto che stringeva nelle mani il live in Molfetta di Reitano e la signora-bodrilla con la compilation "80vogliaDiscoParty", mi capitò uno di quei miracoli che non si avverano neanche nella vecchia Carnaby Street: un doppio cd Rosso/blu, denominato "Alexis Korner & Friends". Fu allora che dimenticai la mia compagna al bancone della verdura, per correre alla cassa e subito dopo all'auto, per godere dell'amico conosciuto e mai frequentato. Dopo un mese di ascolti continui, riuscì a capire chi era veramente Alexis Korner e cosa avevano in comune con lui tanti gruppi inglesi: aveva iniziato un giovane Robert Plant (operator), era amico di Richards e stava per sostituire Brian Jones (Jagger non volle), aveva incitato Mayall e farsi sotto con il blues, aveva lanciato un giovane Paul Rodgers (Free, Bad Company, Queen), suonava con Hodgkinson (Whitesnake) ed era amico di Steve Marriott (Small Faces, Humble Pie) era il vero padre del British Blues. Un grande anche da solo, con l'ausilio della chitarra acustica. Ascoltate "Spoonful" per voce e chitarra e capirete perchè si può prendere a sberle Zucchero quando dice di essere un bluesman.

lunedì 13 aprile 2009

Strani uccelli nel cielo inglese

Erano lì, ammucchiati nel vecchio armadio di zia, a L'Aquila. Anni fa, senza rimpianti, lei mi fece dono di qualche prezioso ricordo della sua swinging era. Sapeva che li avevo appena scoperti, comprando una raccolta a poco prezzo. Avevo tredici anni e nessuna voglia di ascoltare il pop plastificato da nugoli di tastierine, proposto dalle radio milanesi. Mi rifugiavo nelle visioni di un "Blow up" visto a tarda sera, tra i verdi prati di una Londra, dalle vernici fresche sui legni delle case e le luci delle cantine fumose, dove gruppi di capelloni, reinventavano i blues di Muddy Waters. Non pensavo avrebbero potuto resistere alle ingiurie dei tempi onnivori che viviamo. Così, quando ho visto Page e Beck accompagnare i Metallica durante la festa per la loro celebrazione nella Hall of Fame, ho sentito che quella "train kept a rollin",
in quella fumosa cantina, non era stata suonata invano.

venerdì 3 aprile 2009

Patto Anarchico tra gentiluomini


Amici miei, lettori e non. Vi chiedo umilmente di firmare con sangue binario, un patto anarchico sulla beata effige del Dio del Jazz! Lo farete voi?

giovedì 2 aprile 2009

Stairway to the stars

Tempi da Blue Oyster Cult. Ho perso molto, da ragazzo, non interessandomi a questa "anomala" band americana. Ma forse non era ancora tempo. Mi ricordo un loro brano in un film che mi colpì molto: "heavy Metal". La trama non era granchè ed il film era interessante più per la colonna sonora, dato che era impossibile ascoltare musica del genere sui canali ufficiali, anche se c'era qualche pezzo dei Devo che metal proprio non, era. Poi acquistai un live che non mi piacque "Extraterrestrial live", quindi un dopo esame di maturità con un contraddittorio "Club Ninja", che aveva il sapore più di un disco AOR che altro. Infine ai giorni nostri. Cercavo da tempo una colonna sonora che potesse accompagnare la mia vita in quei tempi, strani, cupi, ricchi di cambiamenti. Tempi che stento a dividere in stagioni. Forse, quando ero più ragazzo, la primavera era carica di aspettative, sorprese, novità. C'erano altre colonne sonore, per anni che sembrava dovessero durare più del loro naturale decorso. Così le mie orecchie hanno sempre tenuto a bada la voglia di approfondire la discografia dei BOC. Come se sapessero cosa riservarmi per l'oggi che sto vivendo. Non è stato un gruppo superlativo quello di cui parlo. Ma ci sono sonorità che capitano al posto giusto nel momento giusto ( come per Lebowski). Questo è il momento.

martedì 31 marzo 2009

Van Morrison - Veedon Fleece - 1974


Possiedo il confine tra il filo verde di questa costa all’affaccio sul mare grigio, turbolento della stagione che cambia. Ora, tra le chiome di un rosso, giovane irlandese, si nascondono i venti, ormai intiepiditi dal sole bianco, diretto, di primavera a settentrione. Canto a sola voce. Negli occhi c’è ancora quel fumoso locale dove ti ho visto per la prima volta, amore mio. Suonavo con la band. Tra un blues di Sonny Boy ed un whisky di cattiva qualità, giravamo intorno allo stesso pattern, nel vortice alcolico che saliva tra i volti paonazzi, di gioia, e malessere rimandato. Vieni qui, adesso, amore, lascia che le nebbie leggere tra gli alberi, disegnino la strada verso il villaggio. Ora, si abbassa il rumore, ultimi lasciamo il sentiero in ombra. Sulla riva del torrente, fino al mulino, là, ci potremo amare.

domenica 29 marzo 2009

In the beginning


Ecco un altro spazio dove parlare di musica. Della musica che abbiamo amato e di quella nuova, sempre più impegnativa da scegliere per chi, come me, ha orecchie troppo usate per cogliere novità e rivelazioni. Tuttavia non si può essere nostalgici all'infinito. La musica continua, si evolve, trova spunti , ispirazioni, dalla realtà, dall'immaginazione, cita, si relaziona, rompe con la tradizione. E' un luogo in movimento, dove l'oggetto scompare, nel marasma della rete, levando al supporto, la caratteristica di mediatore, per innalzarlo ad elemento di culto da rivalutare tra adepti (il vinile). Ancora qui a discutere delle musica, dunque. Spero nei vostri contributi. Buon viaggio.

Il Grande Favollo

Come sopravvivere al ventennio senza scatenare una guerra mondiale

G li ultimi vent’anni sono stati quelli della famiglia, del fallimento della mia vita lavorativa, delle soddisfazioni sportive, degli in...