
Ho visto Keith, con la camicia a fiori e le ciabatte. Si accompagnava con nipoti o figli, non ricordo. Un impiegato di un ufficio di provincia con le sue ferie d'agosto. Poi ho visto Keith addormentarsi mentre lo intervistavano, come una manovale al bar dopo una dura giornata di lavoro. Keith è un operaio, un uomo che ti apre la porta in canottiera, uno che porta a spasso il cane la sera. Keith siamo noi. Tutto quello che noi speravamo per il rock, rimane nelle mani di Keith. In questi anni-secoli di musica, indenne e corazzato contro ogni tipo di esperienza, Keith ha sorvolato le morti dei suoi amici come una cornacchia malnutrita, guardando la strage sotto di lui, senza che la storia lo toccasse minimamente. Ha sopportato l'assenza di Brian, ha regolato le volate di Mick. C'è una sola differenza : se levate Mick a Keith, Keith fa ottimi dischi, se fate il contrario, Mick è un uomo perduto, tanto che il diavolo è tentato di restituirgli l'anima. Il più grande motore della leggenda che amiamo, si regge su due gambe secche e vagamente pelose. Dalla sua Tele a cinque corde ( il Mi cantino lo ha levato perchè - dice lui - ad un chitarrista ritmico non serve) si ergono le lezioni dei riff di granito. Quando forgiò "Start me up", fu capace di stare quasi due giorni su quel giro in studio di registrazione. Tira su quel braccio in levare, come la chitarra scottasse, la paletta ingiallita dalla sigaretta tra le corde, risata da finto coglione, manda avanti Jagger a prendersi la sua inutile gloria ( avete capito che non amo jagger). Solo un altro individuo può tenere testa a Keith: Pete Townshend. Degli altri, poco ci frega.