giovedì 16 luglio 2009

Andai 1993


Ero preparato, perché l’età lo imponeva. I miei compagni erano tutti più anziani. Avevano sudato tutto l’inverno per avere una forma fisica soddisfacente. Io no, ero nucleare. Studiai lo zaino con attenzione. I grammi, il necessario per la sopravvivenza, per la sussistenza, per la mia esistenza. Passai la notte a scoreggiare nel furgone, tendendo agguati ai miei compagni addormentati. Solo un imbuto. Il traforo del Monte Bianco infinito, con il rumore del motore a rimbombare sulle pareti curve. Salimmo carichi, dopo un pessimo caffè francese. Nei riflessi opachi della roccia rossastra, i suoni dei nostri moschettoni, il fruscio degli abiti, il frantumare degli scarponi sulle pietre. Un rifugio. Dormii tra le voci straniere di cento alpinisti del mondo. Sotto un vento sferzante, cadevano dal colatoio gli enormi massi a minacciare gli alpinisti. La tempesta si avvicinava. Ci chiudemmo nel bungalow d’alta quota, sull’ultimo lembo di roccia. Alle spalle, la lingua di ghiaccio incombeva. Di notte un fulmine colpii il tetto, piegando l’antenna. Nella sosta forzata, si udii il rantolo di sventurati alpinisti in preda all’edema. Il giorno di attesa tra i mugugni dei compagni.Poi un tramonto lungo sulla Francia. Le nuvole come lenzuola, strofinavano i fianchi delle montagne. Rumori, suoni, voci, sibili. Fu a mattina che salii sulla vedetta di ghiaccio, nel vento teso che trasformava il respiro in brina. Nel bianco assoluto della distesa, le montagne riempivano gli occhi. Un deserto candido con le macchie rossastre dei picchi e delle vette. Fu allora che estrassi il pacchetto che avevo celato gelosamente alle intemperie. Dentro c’era un walkman. Misi la cuffia nel bagliore accecante dei riflessi. Lì, basito dall’ambiente, partirono le note dell’unica canzone presente sul nastro: “Sugar mama” di John Lee Hooker. L’indomani sarei salito sulla vetta del Monte Bianco. Dopo aver ascoltato quella canzone in quel posto, avrei potuto benissimo accontentarmi

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