La prima volta che uscii di casa
con l’intenzione di correre, fu terribile. Non avevo cognizione di cosa volesse
dire e pensavo che, mettere un piede davanti all’altro più velocemente
possibile, sarebbe stata la cosa più giusta da fare. Avevo finito gli orali
degli esami di stato il giorno prima. L’idea di fare dell’attività sportiva
quasi a voler sudare per “spurgare” le tossine degli ultimi mesi, faceva
passare in secondo piano il fatto che potesse essere un’esperienza traumatica
per un ragazzetto come me il quale aveva passato gli ultimi due anni a fumare
le Camel o le Gauloises rigorosamente senza filtro. Qui non si trattava di fare
i soliti giretti del campo di basket per riscaldarsi prima di affrontare la
partita di pallavolo. Dovevo percorrere un tratto, da un punto all’altro,
all’aperto, di mattina, con o senza colazione nello stomaco, totalmente privo
di allenamento. Mi misi d’accordo con la cugina di un mio amico aquilano, in
vacanza durante quel periodo a Ortona perché sapevo che era una brava sciatrice
e sicuramente aveva un briciolo di attitudine allo sport. In realtà aveva delle
belle tette e la mia intenzione era quella di vedergliele ballare mentre
correvano lungo la discesa di via Marina. Era il 2 luglio 1986, ci incontrammo
davanti la chiesa di San Rocco. Senza indugio, iniziammo la nostra corsa a
ritmo sostenuto affiancati. La fortuna volle che la giovincella indossasse una maglietta
cortissima la quale custodiva a malapena delle vistose poppe che le stavano
alte e dritte come fossero scolpite. Facevo finta di guardare avanti ma, ogni
volta che mi giravo per parlarle, notavo quelle protuberanze che ballavano al
ritmo del suo passo. Distratto da cotanto spettacolo, non miresi conto che,
dopo qualche centinaio di metri, il mio respiro era divenuto affannoso in modo
eccessivo. Ostentavo una freschezza che in realtà non avevo per nulla, pur di
rimanere al suo fianco per guardarle le tette. Lei non sembrava affaticata,
avrei dovuto sospettarlo, dato che praticava sport regolarmente. Non feci
alcuna opposizione al fatto che, una volta arrivati sulla piazza del faro, ci
dirigessimo lungo il marciapiede esterno del molo nord che a quel tempo era
accessibile. Se, fino a quel momento, la discesa aveva facilitato la mia corsa
da principiante, una volta in pianura, dovetti fare appello a tutto il mio
arrapamento, per continuare. Lei aveva addirittura aumentato il ritmo. Non le
stavo più a fianco ma dovevo continuare. Ansimavo come una vecchia locomotiva
ma la ragazza si allontanava sempre di più. Dovevo aggrapparmi a qualcosa.
Lungo il muro di protezione del molo erano incastonate delle targhe in marmo
che segnavano i decametri. Ecco, mi
attaccai lì. Il faro, mi sembrava lontanissimo così come la ragazza. Dovevo
farcela. Dopo pochi ma interminabili minuti arrivai al termine del molo,
proprio sotto la torretta bianconera. Sembravo un vecchio asmatico in un
fienile. Mi buttai per terra, tentando di scovare tra le nuvole, un segno
divino che decretasse l’indulgenza plenaria per l’impresa che avevo compiuto.
Accadde di meglio: la ragazza, accorsa per saggiare le mie condizioni, si avvicinò
nel luogo dove ero steso, facendo ombra sul mio viso con il suo corpo.
Da quella posizione, non c’era più nessuna maglietta che impedisse alla mia
visuale di ammirare le sue incredibili poppe.
mercoledì 4 dicembre 2019
domenica 1 dicembre 2019
La via
Il primo ricordo che ho di via Cervana risale all’estate del 1973.
A quei tempi abitavo a Milano e l’unica possibilità
che avevo di passare le vacanze al mare, era quella di stare, per qualche
tempo, dai miei nonni paterni, i quali avevano deciso, dopo un discreto
girovagare, a causa del lavoro di nonno Camillo, di vivere il tempo della
pensione proprio ad Ortona. La nostra famiglia non aveva alcun legame con
questa cittadina. A lungo, il cognome Di Renzo, è rimasto l’unico nell’elenco
telefonico. Tuttavia, per me che respiravo tutto l’anno, lo smog della Milano
industriale, Ortona rappresentava una grande possibilità di scoprire il mare.
Tutti i parenti si innamorarono della cittadina: i genitori di mia madre,
aquilani puri, le sorelle, i cugini e
gli affini. A quei tempi Ortona godeva di una costa incontaminata, dove
tantissimi turisti, specialmente quelli tedeschi, amavano frequentare camping,
alberghi, affollando spiagge e calette, dal Lido Riccio fino a San Vito.
L’acqua era cristallina e appariva normale, per me, che si potesse vedere il
fondo con estrema facilità.
Prima di avventurarmi per il fondali bassi e sabbiosi
del Lido Saraceni, era necessario rinnovare l’attrezzatura “subacquea” acquistando
una maschera economica da Leo Basti, Farinelli o Primavera Sport. Prima che mi
trasferissi definitivamente, ero affidato alle cure dei miei nonni e delle mie
zie le quali, data la mia costituzione gracile e apparentemente malaticcia,
avevano ritenuto che fosse meglio, per me, andare al mare evitando di utilizzare,
per quanto possibile, il torpedone blu della premiata ditta Napoleone, il quale
faceva la spola tra il Lido e la città alta. Forse ho passato molte mattinate
seguendo quel percorso con i sandali ai miei piedi mentre vedevo l’autobus
carico di bagnanti comodamente seduti ma una la ricordo bene e potrebbe far
testo per tutte: non è il ricordo di un evento particolare ma è la memoria di
una sensazione, di un tempo particolare, di visioni che non torneranno più:
essere bambini apparentemente spensierati agli inizi degli anni settanta. Così,
quella stradina ancora sterrata che partiva dalla radice di via Marina e che
finiva, alla seconda curva di via Marina, proprio sopra la fonte delle fate e
scendeva fino alla piazza del porto. Scendevo con mia zia Rosaria verso le
sette e trenta. Le officine e i fondaci a sinistra erano già all’opera,
meccanici riparavano pesanti motori di pescherecci e reti da pesca uscivano dai
grossi portoni fino a stendersi lungo la strada. Nell’osteria di Ciacciantonio,
il rude gestore era intento a preparare colazioni e a dispensare cordiali ai
pescatori più gagliardi. Era un vociare “silenzioso” di parole in dialetto che
a me allora parevano incomprensibili ma che avrebbero cullato il mio crescere
ed invecchiare in questa città. Prima di affrontare il lungo rettilineo, sul
marciapiede ombreggiato dai pini allora giovani e bassi, vecchi pescatori, i
cui volti rugosi erano illuminati dalla luce del sole nascente, rammendavano
con gesti sicuri le reti da pesca, seduti su cassette di legno. Mi appariva
tutto così bello nella sua semplicità, come se quello fosse il preludio alle
ore spensierate che avrei vissuto sulla spiaggia, solo dopo aver percorso
quella strada che allora per me sembrava lunga e interminabile: via Cervana.
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