Il primo ricordo che ho di via Cervana risale all’estate del 1973.
A quei tempi abitavo a Milano e l’unica possibilità
che avevo di passare le vacanze al mare, era quella di stare, per qualche
tempo, dai miei nonni paterni, i quali avevano deciso, dopo un discreto
girovagare, a causa del lavoro di nonno Camillo, di vivere il tempo della
pensione proprio ad Ortona. La nostra famiglia non aveva alcun legame con
questa cittadina. A lungo, il cognome Di Renzo, è rimasto l’unico nell’elenco
telefonico. Tuttavia, per me che respiravo tutto l’anno, lo smog della Milano
industriale, Ortona rappresentava una grande possibilità di scoprire il mare.
Tutti i parenti si innamorarono della cittadina: i genitori di mia madre,
aquilani puri, le sorelle, i cugini e
gli affini. A quei tempi Ortona godeva di una costa incontaminata, dove
tantissimi turisti, specialmente quelli tedeschi, amavano frequentare camping,
alberghi, affollando spiagge e calette, dal Lido Riccio fino a San Vito.
L’acqua era cristallina e appariva normale, per me, che si potesse vedere il
fondo con estrema facilità.
Prima di avventurarmi per il fondali bassi e sabbiosi
del Lido Saraceni, era necessario rinnovare l’attrezzatura “subacquea” acquistando
una maschera economica da Leo Basti, Farinelli o Primavera Sport. Prima che mi
trasferissi definitivamente, ero affidato alle cure dei miei nonni e delle mie
zie le quali, data la mia costituzione gracile e apparentemente malaticcia,
avevano ritenuto che fosse meglio, per me, andare al mare evitando di utilizzare,
per quanto possibile, il torpedone blu della premiata ditta Napoleone, il quale
faceva la spola tra il Lido e la città alta. Forse ho passato molte mattinate
seguendo quel percorso con i sandali ai miei piedi mentre vedevo l’autobus
carico di bagnanti comodamente seduti ma una la ricordo bene e potrebbe far
testo per tutte: non è il ricordo di un evento particolare ma è la memoria di
una sensazione, di un tempo particolare, di visioni che non torneranno più:
essere bambini apparentemente spensierati agli inizi degli anni settanta. Così,
quella stradina ancora sterrata che partiva dalla radice di via Marina e che
finiva, alla seconda curva di via Marina, proprio sopra la fonte delle fate e
scendeva fino alla piazza del porto. Scendevo con mia zia Rosaria verso le
sette e trenta. Le officine e i fondaci a sinistra erano già all’opera,
meccanici riparavano pesanti motori di pescherecci e reti da pesca uscivano dai
grossi portoni fino a stendersi lungo la strada. Nell’osteria di Ciacciantonio,
il rude gestore era intento a preparare colazioni e a dispensare cordiali ai
pescatori più gagliardi. Era un vociare “silenzioso” di parole in dialetto che
a me allora parevano incomprensibili ma che avrebbero cullato il mio crescere
ed invecchiare in questa città. Prima di affrontare il lungo rettilineo, sul
marciapiede ombreggiato dai pini allora giovani e bassi, vecchi pescatori, i
cui volti rugosi erano illuminati dalla luce del sole nascente, rammendavano
con gesti sicuri le reti da pesca, seduti su cassette di legno. Mi appariva
tutto così bello nella sua semplicità, come se quello fosse il preludio alle
ore spensierate che avrei vissuto sulla spiaggia, solo dopo aver percorso
quella strada che allora per me sembrava lunga e interminabile: via Cervana.
Beh, è una foto a colori di un periodo in bianco e nero che tebgo incorniciato nel mio cuore!
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