mercoledì 4 dicembre 2019

L'intenzione


La prima volta che uscii di casa con l’intenzione di correre, fu terribile. Non avevo cognizione di cosa volesse dire e pensavo che, mettere un piede davanti all’altro più velocemente possibile, sarebbe stata la cosa più giusta da fare. Avevo finito gli orali degli esami di stato il giorno prima. L’idea di fare dell’attività sportiva quasi a voler sudare per “spurgare” le tossine degli ultimi mesi, faceva passare in secondo piano il fatto che potesse essere un’esperienza traumatica per un ragazzetto come me il quale aveva passato gli ultimi due anni a fumare le Camel o le Gauloises rigorosamente senza filtro. Qui non si trattava di fare i soliti giretti del campo di basket per riscaldarsi prima di affrontare la partita di pallavolo. Dovevo percorrere un tratto, da un punto all’altro, all’aperto, di mattina, con o senza colazione nello stomaco, totalmente privo di allenamento. Mi misi d’accordo con la cugina di un mio amico aquilano, in vacanza durante quel periodo a Ortona perché sapevo che era una brava sciatrice e sicuramente aveva un briciolo di attitudine allo sport. In realtà aveva delle belle tette e la mia intenzione era quella di vedergliele ballare mentre correvano lungo la discesa di via Marina. Era il 2 luglio 1986, ci incontrammo davanti la chiesa di San Rocco. Senza indugio, iniziammo la nostra corsa a ritmo sostenuto affiancati. La fortuna volle che la giovincella indossasse una maglietta cortissima la quale custodiva a malapena delle vistose poppe che le stavano alte e dritte come fossero scolpite. Facevo finta di guardare avanti ma, ogni volta che mi giravo per parlarle, notavo quelle protuberanze che ballavano al ritmo del suo passo. Distratto da cotanto spettacolo, non miresi conto che, dopo qualche centinaio di metri, il mio respiro era divenuto affannoso in modo eccessivo. Ostentavo una freschezza che in realtà non avevo per nulla, pur di rimanere al suo fianco per guardarle le tette. Lei non sembrava affaticata, avrei dovuto sospettarlo, dato che praticava sport regolarmente. Non feci alcuna opposizione al fatto che, una volta arrivati sulla piazza del faro, ci dirigessimo lungo il marciapiede esterno del molo nord che a quel tempo era accessibile. Se, fino a quel momento, la discesa aveva facilitato la mia corsa da principiante, una volta in pianura, dovetti fare appello a tutto il mio arrapamento, per continuare. Lei aveva addirittura aumentato il ritmo. Non le stavo più a fianco ma dovevo continuare. Ansimavo come una vecchia locomotiva ma la ragazza si allontanava sempre di più. Dovevo aggrapparmi a qualcosa. Lungo il muro di protezione del molo erano incastonate delle targhe in marmo che segnavano i decametri.  Ecco, mi attaccai lì. Il faro, mi sembrava lontanissimo così come la ragazza. Dovevo farcela. Dopo pochi ma interminabili minuti arrivai al termine del molo, proprio sotto la torretta bianconera. Sembravo un vecchio asmatico in un fienile. Mi buttai per terra, tentando di scovare tra le nuvole, un segno divino che decretasse l’indulgenza plenaria per l’impresa che avevo compiuto. Accadde di meglio: la ragazza, accorsa per saggiare le mie condizioni,  si avvicinò  nel luogo dove ero steso, facendo ombra sul mio viso con il suo corpo. Da quella posizione, non c’era più nessuna maglietta che impedisse alla mia visuale di ammirare le sue incredibili poppe.

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